Relazione tenuta al Convegno Erbezzo il 3 e 4 ottobre 2015, intitolato “Vita e ruolo delle popolazioni alpine” di Mariano Allocco
Era il 23 giugno del 1902 e il deputato dei monti piacentini Luchino Dal Verme in un suo intervento al parlamento diceva che in Italia
“…non è questione di nord o sud, è questione di monte e piano”.
Nulla è cambiato da allora e la “questione montana” rimane da risolvere, anzi sta radicalizzandosi in una frattura sempre più evidente tra Città e Contado.
Per le popolazioni delle Alpi l’affermarsi dello Stato Centrale significò per la prima volta nella storia la collocazione dei confini lungo gli spartiacque e la fine delle libertà conquistate nel medioevo.
L’intero impianto normativo e istituzionale di tipo comunitario che seppero darsi le popolazioni che avevano scelto di salire sulle Alpi era la risposta alla sfida del vivere le “Alte Terre” e hanno tracciato nei secoli quelle che Luigi Zanzi chiamava le “curve di livello delle civiltà”.
L’arrivo della “modernità” ha portato prima la povertà, poi il deserto e l’emarginazione sulle montagne, quattro secoli di un declino che ha visto precipitare la situazione nel secolo scorso con l’utilizzo delle Alpi e delle sue genti a scopo bellico, i montanari hanno poi alimentato l’industrializzazione della pianura padana, per arrivare ora ad un deserto verde.
L’approccio “liberal” per il governo della società ha spazzato via dai monti antiche consuetudini “comunitarie” che avevano la loro centralità nella gestione dell’insieme dei valori considerati “bene comune”.
In un momento in cui sono evidenti i limiti del liberalismo, è opportuno un approfondimento delle dinamiche che hanno portato alla marginalizzazione delle Alte Terre, il monte ha qualcosa da insegnare alla pianura qualcosa che viene da lontano.
Suggerisco di allargare la visuale e alzare lo sguardo per cercare di capire, partendo da quassù, quanto sta accadendo altrove, perché l’esperienza maturata in montagna nei secoli scorsi può essere d’aiuto per interpretare il presente e pensare al futuro.
Innanzitutto dobbiamo chiarire il concetto di “montagna”, quali possono essere i parametri per individuarla? le quote altimetriche? le curve di livello? le pendenze dei crinali?
Tutto questo è legato al solo territorio, trovo efficace nel contesto del dibattito odierno, dare una definizione del concetto di montagna partendo dai comportamenti individuali e collettivi delle persone e delle comunità che abitano il monte e che subiscono l’impatto della geografia dei luoghi.
Ritengo che l’assenza delle masse umane e la presenza immanente della geografia dei luoghi siano i tratti caratteristici e discriminanti per definire il concetto di Alte Terre, questa è la differenza tra montagna e pianura in Europa, questa è una definizione della montagna per poi procedere a una riflessione su una politica possibile.
L’assenza della Massa ha un chiaro impatto su dinamiche di tipo politico.
L’attuale organizzazione della società è basata sul governo della Massa, anzi, la presuppone e in sua assenza anche la politica si distrae, si allontana da quei luoghi e in questi casi la stessa democrazia denuncia limiti evidenti e se non c’è politica si è fuori dal sistema di gestione del potere perché politica e potere viaggiano assieme.
Se la politica si ritira da un luogo questo non è più visto come parte costitutiva di un sistema, ne diventa appendice, pertinenza a cui accedere per prelevare risorse e energie, questa è l’attuale situazione del Monte.
Per me è evidente un approccio di tipo coloniale nei nostri confronti, ne parliamo più avanti.
La gente di montagna ha una sola via di uscita, deve abbandonare una fase che definirei “prepolitica”, affermare la volontà di tornare a fare politica recuperando innanzitutto un concetto di “polis”, individuandone il perimetro cominciando dalle Alpi e recuperare il ruolo di cittadini che abitano le Alte Terre del contado.
Guardate che definirsi cittadino e montanaro sta diventando un ossimoro.
Per Machiavelli la politica è la ”lotta per conquistare e conservare il potere” questa è la strada che le genti alpine devono ricominciare a percorrere.
E’ tempo che la politica montana sia pensata, progettata e attuata dalla gente montana e va creata una “polis”, intesa come spazio di libertà e di pari dignità, che comprenda tutte le Alpi.
Per Norberto Bobbio La democrazia è “ un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati”,ma dove sono i luoghi di discussione in cui gli interessi delle popolazioni alpine sono rappresentati?
Quanti sono i rappresentanti eletti dalle popolazioni alpine presenti nella catena di comando?
Quante sono le “decisioni collettive” che riguardano le Alpi prese senza che le popolazioni alpine siano coinvolte in esse?
Ora sul piano delle libertà sono evidenti i limiti imposti alle popolazioni alpine che hanno poca voce in capitolo sulle scelte che riguardano il loro territorio, cominciando dallo sfruttamento delle risorse naturali per finire alla gestione di un bosco e di una fauna invasivi.
Un nuovo Patto tra le popolazioni delle Alpi e quelle della sottostante pianura si impone e va innanzitutto ripensato e riformulato il rapporto tra la montagna e le città pedemontane.
Le popolazioni alpine dovrebbero essere rappresentate nelle istituzioni in modo proporzionale sia alla propria consistenza numerica che all’estensione del territorio montano che vivono; la gestione del territorio dovrebbe essere in primo luogo di competenza delle popolazioni alpine e dovrebbe essere garantito un livello minimo di servizi, perché questa è la leva che deve essere utilizzata per far ripartire il volano dell’economia alpina.
In particolare la società tutta, non solo quella alpina, deve fare i conti con un limite evidente del liberalismo che è il disinteresse per il concetto di “bene comune”.
L’esperienza che deriva dal vivere in alto, dove individualismo e comunitarismo avevano trovato un equilibrio virtuoso che ha permesso di vivere in situazioni a volte estreme, può contribuire a trovare le correzioni che si impongono.
Vista da quassù, dalla Alte Terre, la questione è di quelle che appassionano, anche perché, per usare le parole di F. Braudel, da sempre le montagne sono “il rifugio delle libertà, delle democrazie, delle risorse importanti” .
Riprendo ora in modo puntuale alcuni argomenti a cui ho accennato prima iniziando con una breve riflessione sulla decisione europea di individuare una strategia per la macroregione alpina.
La consapevolezza che le Alpi sono nodo fondante di una Europa, una centralità che si è affermata nel Medioevo. Perché prima, in epoca romana le Alpi erano per lo più luogo di passaggio, le Alpi furono popolate secoli dopo quando signori illuminati nel medioevo garantirono “libertà e buone vianze” a coloro che sceglievano di farsi montanari e di “libertà e buone vianze” dovremo tornare a parlare per continuare a vivere quassù.
Teniamo in buon conto che i confini della Macroregione Alpina entro cui indirizzare fondi strutturali comprende tutta la pianura padana e le grandi città, ma guarda un po’!
Non si vuole capire che la Macroregione Alpina dovrebbe coincidere con i confini definiti dalla Convenzione delle Alpi.
La Macroregione Alpina dovrebbe indicare il luogo in cui concentrare le risorse a disposizione di coloro che vivono e lavorano nelle valli e basta.
Intanto è ormai evidente una frattura tra Città e Contado.
Da un lato i grandi numeri di cui si alimenta la democrazia e il potere, dall’altro il mondo rurale, di cui il Monte è parte.
Una frattura che è figlia della modernità e che sta radicalizzandosi sempre di più.
Se per il Contado c’è disinteresse, nei confronti del Monte sovente si procede per tentativi, con alzate d’ingegno, cogliendo l’attimo e i finanziamenti man mano possibili o aspettando l’uomo del destino.
Intanto una serie di domande che il mondo rurale pone da decenni rimangono sul tavolo, mentre la politica, con atteggiamento ecumenico, sta lontana dalla “questione montana”.
Garantire servizi, rendere vivibile il territorio, agevolare l’accesso allo studio ai giovani, dare rappresentatività alle comunità rurali, lasciare che il territorio sia gestito dalle comunità che lo vivono, sostenere il settore primario, disegnare una strategia regionale che dia pari dignità a tutti, rendere possibile la vita sul Monte, i temi sono molti…..
Tornando alla frattura tra monte e piano, prendiamo ad esempio l’ideologia che sta alla base di quello che chiamano Wilderness.
Con Wilderness si intende un ambiente naturale e selvaggio privo di tracce dell’uomo.
Wilderness, termine ora di moda, si cominciò a parlarne nella prima metà del ‘900 negli Stati Uniti, comprensibile che questa scuola di pensiero si sia sviluppata là dove nel giro di tre secoli era stato travolto e stravolto il precedente millenario rapporto tra uomo e natura.
Negli USA non c’è stato il millenario processo storico che in Europa ha portato alla gestione del territorio.
La ricerca di un equilibrio accettabile negli Stati Uniti, almeno sul piano del rapporto con la natura, ha portato nel 1964 alla firma da parte di Lyndon Johnson del “Wilderness act” che punta ad “un ambiente naturale e selvaggio, in contrapposizione alle zone dove l’uomo e le sue opere dominano il paesaggio, riconosciuto come un’area in cui la terra e la sua vita non sono ostacolate dall’uomo, dove l’uomo stesso è un visitatore, ma che non vi rimane”.
Negli USA le aree Wilderness comprendono il 5% del territorio.
In Europa il contesto geografico,sociale, storico e le zone in cui “l’uomo è visitatore e non vi rimane” non so dove siano, ma la differenza maggiore sta nei più di 3000 anni di storia che a loro mancano e questo, specialmente visto dalle Alpi, fa una bella differenza.
Perché si parla allora di wilderness da noi? Sicuramente non per i motivi che hanno spinto gli USA al Wilderness act, ma principalmente perchè avere a disposizione regioni selvagge senza traccia d’uomo sta diventando una necessità per la sopravvivenza delle masse urbane alienate, è un antidoto indispensabile contro la pressione insostenibile della vita moderna, un mezzo per mantenere un minimo di equilibrio e serenità.
In Occidente si sta affermando l’idea che l’uomo non faccia parte della natura, ma ne sia il nemico e che vada allontanato da essa.
A me pare una patologia di massa, epidemia che sta contagiando sempre più persone e che va curata in qualche modo, però non la si cura limitando le libertà altrui.
Il sospetto è che qualcuno voglia fare delle Alpi una zona Wildnerness da usare come alibi e compensazione per i disastri fatti in pianura.
Usiamo allora con prudenza la parola Wilderness e mai guardando alle Alpi che storicamente sono una delle zone più antropizzate d’Europa e su di esse noi montanari vogliamo poter continuare a vivere in libertà.
DIMENSIONI ALPINE
Ora una riflessione sul perché la frattura tra Città e Contado nel Nord Italia è così evidente.
Con chi dobbiamo confrontarci noi montanari? Con la città ovviamente.
In Italia il 70% della popolazione vive in città, su questo scenario si affaccia la legge Del Rio, la n° 56 del 2014, che istituisce le città metropolitane, obiettivo lo sviluppo, la gestione dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione, la cura delle relazioni istituzionali.
Per il Piemonte ad esempio si tratta di una sfida affascinante, complessa e strategica, quella di ridisegnare ruolo e rapporti col resto della regione di Torino che, negli ultimi due secoli, è passata attraverso cambiamenti strutturali che le altre città italiane non hanno vissuto.
Negli anni ’60 a Mirafiori lavoravano più di 60.000 persone, ora si parla di poche migliaia e anche l’indotto è residuale rispetto ai numeri di allora.
L’unità d’Italia spostò la capitale politica a Roma e ora che la Fiat sta tagliando le radici col passato, anche la capitale industriale evapora.
Le città nel 3° millennio hanno confini e ruoli nuovi, ora non è più necessaria la prossimità fisica, negli USA la classe media sta abbandonando il centro città, Milano è tornata ad avere gli abitanti del dopoguerra, mentre le 9 provincie che la circondano hanno incrementato la popolazione.
Torino ha una sua specificità “sabauda”, ma condivide con le altre città e con tutta la Pianura Padana la presenza di periferie.
Parlare di periferie è argomento ovviamente complesso e se intendiamo il concetto di periferia non solo come luogo geografico borderline di un insediamento, ma come espressione di subalternità sociale, l’analisi si fa più articolata.
In ogni insediamento ci sono zone che sono “più periferie delle altre”, sono quelle in cui sono presenti evidenti espressioni di subalternità e visto da quassù l’argomento non può che essere affrontato da questa prospettiva.
Per questo affermo che la “questione montana” si pone nei confronti del Nord Italia come rapporto tra periferia e centro.
Se la Città deve abbandonare l’impostazione tolemaica delle politiche regionali, percorso ormai bocciato dalla storia, il Monte deve rifiutare una subalternità, anche questa eredità sabauda, per ripensare, proporre e pretendere un rapporto nuovo col Piè.
LUPO, PARADIGMA DEL RAPPORTO CONFLITTUALE TRA MONTE E PIANO
Quando parlo di frattura tra Città e Contado, la questione “lupo” è la metafora di questa deriva epocale, una frattura a cui spero qualcuno ponga rimedio prima che si inneschino derive conflittuali che non sono utili a nessuno.
Da tempo dai monti si denuncia che col lupo la situazione è ormai insostenibile, per quanto tempo la politica continuerà a fare il pesce in barile?
Per quanto tempo ancora si dovrà assistere, ad esempio, a collaborazioni con un progetto come Wolfalps che ha come obiettivo “la ricolonizzazione da parte del lupo in tutto l’ecosistema alpino da Ovest ad Est” e costa 6.1 milioni di Euro?
Questo obiettivo è per me incompatibile con politiche di sviluppo alpino.
Messaggio che però si vuole far passare ad ogni costo, il lupetto di pelouche Wolfy era la mascotte del Giro d’Italia (quanto è costata e chi ha pagato questa sponsorizzazione?), al Tour la musica è stata tutt’altra, il 21 luglio Segolene Royal è venuta in elicottero a Gap altrimenti da li il tour de France non ripartiva e si è trovata una valle tappezzata di manifesti con su scritto “laisatz nos viure”.
E’ ora di “coordinarci” noi popolazioni alpine, da Est a Ovest dell’arco alpino, superando confini statuali da consegnare alla storia.
Come i parchi hanno voluto Wolfalps perché non proporre un progetto con gli stessi obiettivi, ma che riguardi “la ricolonizzazione umana in tutto l’ecosistema alpino da Ovest ad Est”?
Perché i parchi riescono a fare un progetto pan alpino e le regioni alpine no? Facciamolo partire noi , proponiamolo qui, oggi.
Guardate poi che la questione lupo non attiene le sole attività pastorali, so poi di sollevare una questione spinosa parlando della pericolosità del lupo, argomento ruvido, ma ruvida é la vita sul monte e ruvido poi lo sono anche io.
Attacchi sono documentati sulle Alpi occidentali fino a fine ottocento e altri lo sono negli Abruzzi fino al 1924. (http://www.storiadellafauna.it/scaffale/testi/alto/vie.htm ).
In Norvegia, Finlandia, Spagna, Francia,Polonia, Russia, India, Estonia e Italia dalla fine del ‘700 ad oggi ci sono stati più di 1000 attacchi documentati all’uomo di lupi non rabbidi (http://www.nina.no/archive/nina/PppBasePdf/oppdragsmelding/731.pdf ).
Il contesto rurale è cambiato, siamo d’accordo, ma proprio questi cambiamenti andrebbero studiati perché il lupo è animale opportunista e scaltro.
Le azioni dovrebbero essere concordate tra gli stati alpini, cosa che non è.
Non voglio qui sollevare discussioni sterili, ma spiegare che il tema va al più presto riportato nelle sedi competenti, che non sono quelle di Wolfalps.
Non sono i Parchi e lo vado dicendo da anni, che devono occuparsi fuori dei loro confini di una questione che attiene per quanto riguarda la sicurezza al Prefetto ed i Sindaci e per organizzazione, pianificazione e controllo alla Regione e allo Stato.
Il progetto Wolfalps non può essere usato come alibi da nessuno, questa è una questione da porre sul tavolo della politica e delle Istituzioni e non di altri.
A Roma stanno preparando il dossier per richiedere deroga alla convenzione di Berna e poter abbattere qualche lupo, a breve conferenza stato regioni al riguardo, ma la questione non si risolve qui perbacco, ben altro andrebbe fatto.
PROPOSTE
Discutere di “questione alpina” vuol dire confrontarsi col Potere e le regole che lo governano e il potere può essere suddiviso in tre grandi classi potere economico, ideologico e politico e noi siamo deboli su tutto il fronte, altrimenti non saremmo qui a parlarne.
Per riformare il rapporto tra Piè e Monte non possiamo che mettere in conto un “conflitto ragionevole”, una definizione non mia, è del prof. Fabrizio Barca aveva teorizzato per affrontare la sfida delle “aree interne”, che per noi sono le valli alpine.
«È l’ora di destabilizzare le classi dirigenti estrattive che drenano risorse dai territori ostacolandone la modernizzazione, intendendo per classi dirigenti estrattive quelle leadership locali che tendono a far si che tutto rimanga immobile affinché possano conservare, senza intralci, le loro posizioni dominanti”.
Ho avuto modo di collaudare anni fa l’efficacia di un approccio destabilizzante, come ho conosciuto la potenza di fuoco che può essere messa in campo contro di esso dalle posizioni dominanti e sono d’accordo con Barca quando propone un “meccanismo di conflitto” per raggiungere la destabilizzazione.
Questo approccio deve assumere connotati di tipo politico e contagiare il monte, altrimenti il rischio è che il tutto venga risucchiato in un “vortice estrattivo” organizzato per difendere posizioni e rendite dominanti.
L’attacco in atto da tempo alle istituzioni alpine è funzionale a dinamiche di questo tipo. A qualcuno servono istituzioni locali deboli per organizzare gli ultimi prelievi sui monti.
E’ tutto l’impianto dei rapporti tra monte e piano che va “riformato” (uso questa parola nella sua accezione storica e non a caso) , non ci sono altre strade possibili per scardinare un approccio nei confronti del monte che, la metto giù cruda pensando al Piemonte in modo particolare, si appoggia su tre postulati letali per ogni ipotesi di innovazione:
1° ecumenismo politico verso la “questione montana” ;
2° oligarchia dominante che ha impedito ogni cambiamento negli ultimi tre decenni;
3° cooptazione classe dirigente da parte di questa oligarchia per impedire un ricambio e qualsiasi innovazione.
Queste sono le tre caratteristiche storiche delle politiche coloniali.
Ecco perché parlo di “conflitto ragionevole” per indicare l’unico percorso possibile per “riformare” i rapporti tra Piè e Monte, riorganizzandolo in modo inclusivo.
LEGGE CARLOTTO
La locandina dell’incontro di oggi fa riferimento alla legge nazionale per la montagna che dobbiamo al sen. Carlotto, la n°97 del ’94.
Ha compiuto 20 anni e per buona parte è inapplicata, perché?
L’obiettivo era nobile, l’attuazione dell’art. 44 della Costituzione, “la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane”.
Parla di beni agro-silvopastorali, acquisto di proprietà, usucapione, tutela ambientale, caccia, pesca e prodotti del sottobosco, gestione del patrimonio forestale, autoproduzione energetica, attività produttive, servizi, sgravi fiscali, pluriattività, scuola, informatica, telematica, ecc.
Dopo 20 anni dalla sua promulgazione vale la pena capire perché é rimasta in buona parte nel cassetto.
L’arcano, l’inghippo per me è piazzato proprio nel primo articolo quando si afferma che l’obiettivo è quello di promuove azioni “che tengano conto delle insopprimibili esigenze di vita civile delle popolazioni residenti.”, la centralità è sull’uomo che vive la montagna, mentre ora prevale l’attenzione sull’ambiente, allora non è politicamente corretto anteporre a tutto le “esigenze di vita…delle popolazioni residenti”.
Rispetto al monoteismo ambientalista è evidente l’eterodossia della legge, ecco il perché del suo accantonamento, nel silenzio complice del Pie e del Monte.
C’è poi un imperdonabile peccato originale, la legge non è uscita né dai palazzi né dai partiti, ma è nata nelle nostre valli.
La “Carlotto” rimane comunque un pilastro nella storia delle Alte Terre e visto che una legge non è una scatola di tonno con una data di scadenza, o la si abroga o la si applica.
L’articolo per me urgente è il sedicesimo, dice che il reddito d’impresa nei comuni montani può essere calcolato “…sulla base di un concordato…. In tal caso le imprese stesse sono esonerate dalla tenuta di ogni documentazione contabile e di ogni certificazione fiscale..”.
La possibilità di incidere sulla fiscalità sui monti che si chiede c’è già, perché non si applica? Cosa lo impedisce? E’ legge dello Stato.
Sovente sento dire che è di difficile attuazione, ma nessuno ci ha mai provato, nessuno ha mai provato a passare sul piano attuativo.
Più facile ogni tanto parlare di nuove leggi per la montagna, così si iniziano percorsi che si perdono nel deserto, sanno di alibi e tra una elezione e l’altra non se ne viene a capo.
Rileggiamo la legge Carlotto e aggiorniamola, invece di partire dal foglio bianco.
COORDINAMENTO GENTE DI MONTAGNA
Per un avvenire possibile per le Alte Terre è indispensabile darsi una strategia, con la sola tattica non si va da nessuna parte e una idea di strategia montana è la grande assente.
Ma cosa si intende per strategia?
Con la prima industrializzazione nell’’800 dalle Alpi è scivolato in pianura il settore secondario, ora con il dilagare del bosco, l’arrivo dei predatori e altre difficoltà, sotto attacco è quel poco di primario rimasto e senza questo neppure il terziario reggerà alla lunga.
Primario: la produzione della terra, che sui monti può avere specializzazioni importanti, bio, caccia, pesca, estrazioni, boschi, acqua ….
Secondario: manifatturiero, artigianato, industria, è stata la colonna portante per secoli dell’economia alpina.
Terziario: trasporti, comunicazioni, commercio, turismo, informatica, ricerca e sviluppo, formazione.
Vivere sulle Alpi vuol dire ripensare una economia che riparta da queste tre colonne portanti e il collante di questo progetto può essere il patrimonio culturale alpino.
Cultura significa “sapere”, ma sui monti significa anche “saper fare”, è l’insieme di conoscenze delle necessità materiali dell’uomo, un bagaglio che sta abbandonando l’orizzonte del possibile e del necessario per le nuove generazioni urbane.
Per vivere il monte bisogna avere le mani sapienti, non solo la testa.
Partendo dal primario nelle valli e utilizzando l’energia da fonti rinnovabili come motore endogeno si può riattivare il secondario nella fascia pedemontana e promuovere il terziario.
Occorre pensare in grande e proporre una visione strategica nella quale collocare iniziative nei vari settori che siano individuabili in un disegno d’insieme che veda le vallate e la fascia pedemontana giocare ruoli complementari e sinergici.
Ecco perché è importante disegnare una “strategia delle Alte Terre” per iniziare un percorso virtuoso, altrimenti si continuerà a rincorrere occasioni di finanziamento, ad assecondare le alzate d’ingegno di qualcuno, le ambizioni di qualcun altro o giochetti politici delle parti.
Tutto legittimo, sia ben inteso, ma con scarsa probabilità di innescare uno sviluppo durevole in un contesto competitivo che altrimenti premia prima di tutto scaltrezza, furbizia e opportunismo.
Gli esempi non mancano.
Collaborazioni internazionali, finanziamenti strutturali, accordi commerciali, progetti per euro regioni, iniziative magari eccellenti di vallata, avrebbero ben altra energia e potenza se fosse possibile giustapporli in un disegno di strategia di sviluppo condivisa e pensata nelle valli.
Un tempo la geografia ci impediva di confrontarci, il sistema aveva organizzato il tutto in modo che ogni valle guardasse verso il basso, da noi verso Cuneo o Torino, bene, recuperiamo i collegamenti che corrono lungo le curve di livello, la tecnologia ci permette di superare barriere geografiche, creiamo un “coordinamento gente di montagna”.
Torniamo a fare politica, altre strade non ne abbiamo, ma non in modo ecumenico, oligarchico e per cooptazione.
Torniamo a fare politica recuperando un approccio comunitario alle questioni che riguardano il vivere il Monte.
Mettiamo in rete idee, energie, disponibilità, individuiamo in denominatore comune che unisca istituzioni, associazioni, e montanari e diamoci obiettivi, organizzazione, metodo.
Il denominatore comune nel quale riconoscerci potrebbe essere il comune bisogno di libertà, che è alla base del vivere il Mote, indirizziamo in spirale positiva le energie del territorio verso questo obiettivo.
Guardate che non abbiamo più molto tempo, un paio di generazioni e se non si inverte questa deriva quassù c’è un deserto verde.
Creiamo qui, oggi, un coordinamento gente di montagna e uniamo le forze per poter vivere le Alte Terre.
Questo almeno lo dobbiamo alla nostra gioventù.